Pensioni:raffronto Italia - Europa • Roberto Simonetti

Pensioni:raffronto Italia – Europa

Inserita martedì, 12 Giugno 2012 | da: roberto simonetti
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Appunto sulle pensioni

 

Una riforma strutturale del sistema pensionistico finalizzata a ricostruire il patto intergenerazionale è stata attuata nel nostro ordinamento con la legge n.335 del 1995, con la quale si è passati dal metodo “retributivo” a quello “contributivo” e cioè la pensione non si calcola più sulla media degli ultimi stipendi, bensì sui versamenti fatti nell’intera vita lavorativa.

Il metodo retributivo, infatti, poggia sul principio che i contributi riscossi dai lavoratori e dalle aziende non vengono capitalizzati ed incrementati, ma soltanto ripartiti fra i soggetti pensionati: condizione necessaria affinché tale metodo sia valido è che il numero dei lavoratori attivi sia superiore a quello dei pensionati e che il livello produttivo sia in grado di garantire i livelli di occupazione, in quanto la generazione in pensione viene così finanziata da quella lavorativa, a prescindere dal suo effettivo contributo al risparmio previdenziale complessivo. Ciò significa che, nel momento in cui si attraversa una crisi economica e, dunque, occupazionale oppure una calo di natalità e, quindi, una diminuzione di lavoratori potenziali, il sistema non regge più, proprio perché il metodo retributivo rende il trattamento pensionistico indipendente dalla storia contributiva degli interessati e dipendente dalla situazione retributiva degli ultimi anni di lavoro.

 

 

Come si giunge alla riforma Dini

 

Anni ‘50/‘60 è periodo di grande espansione economica, milioni di lavoratori versavano soldi nelle casse dell’INPS. In quest’ottica è ovvio che il sistema previdenziale a ripartizione funzioni perfettamente, perché il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati era di gran lunga favorevole ai primi.

1965 è primo pensionamento di massa, in quanto la generazione che aveva vissuto la guerra aveva maturato in media i 35 anni di contributi. Per garantire l’equilibrio, si estende l’obbligo contributivo ai commercianti ed agli artigiani .

1965/69 è introduzione delle pensioni d’anzianità (cioè quelle pensioni conseguibili dopo 35 anni di contribuzione indipendentemente dall’età).

Legge 30 aprile 1969, n.153 è introduzione delle pensioni sociali (rata mensile = £.25.850; importo annuale = £.336.050)

Tra il 1956 ed 1970 è introduzione delle baby-pensioni .

Anni ‘70 è prendono il via le politiche di sicurezza sociale a favore del mezzogiorno ; miliardi sprecati in CIG e pensioni d’invalidità clientelari dissanguano le casse dell’INPS.

1990 è varo della legge n.233, che estende il metodo “retributivo“ ai lavoratori autonomi, promettendo loro una pensione calcolata con gli stessi parametri dei lavoratori dipendenti a fronte di un aumento dei contributi.

Le falle di un sistema a ripartizione cominciano ad emergere: il continuo aumento contributivo ed il contemporaneo allargamento della base dei soggetti assicurati serviva ad assicurare la pensione a coloro che già la percepivano e non ai giovani lavoratori futuri pensionandi.

1992 è “ Riforma Amato ”, dal nome dell’allora Presidente del Consiglio. In realtà non è stata una vera e propria riforma, ma piuttosto si è trattato di “correttivi”, “ritocchi”, resi necessari dalla crisi valutaria di quell’anno:

1. graduale innalzamento dell’età pensionabile (spostando più in alto il tetto per gli uomini);

2. allungamento dei periodi di riferimento della base pensionabile; la limitazione della perequazione automatica delle pensioni al solo aumento dei prezzi;

3. misure per sopprimere il pensionamento anticipato dei dipendenti pubblici.

La riforma mantiene le pensioni di anzianità, ma introduce un blocco che coinvolse circa 160 mila lavoratori (diventati nel ‘95 oltre 200 mila).

Proprio perché si è trattato di interventi a carattere perequativo, o meglio di contenimento della spesa, tale “riforma” non ha inciso sugli equilibri finanziari del sistema previdenziale, nel senso che permaneva una differenziazione economicamente non sostenibile tra entrate contributive e prestazioni previdenziali. L’aliquota di equilibrio, che è il fondamentale indicatore dello stato di salute del sistema, rimaneva infatti superiore al 40%.

Gli interventi normativi attuati nel biennio 1993-1994 insede di provvedimenti collegati alle rispettive finanziarie (legge n.537/1993 e n.724/1994) hanno apportato ulteriori revisioni al sistema previdenziale.

1993 è il Governo Ciampi attuazione ad una parte delle deleghe contenute nella Legge finanziaria varata dall’esecutivo Amato.

La legge 537/93 interviene, sostanzialmente, sui trattamenti di anzianità del pubblico impiego, introducendo meccanismi disincentivanti; inoltre agisce sulla struttura degli enti previdenziali, prevedendo per alcuni l’accorpamento, fusione e riorganizzazione (D.Lgs. n.479/1994) e per altri la privatizzazione (D.Lgs. n.509/1994).

1994 è il Governo Berlusconi tenta una mini-riforma : al fine di portare nelle casse dello Stato 5.500 miliardi nel triennio 1995-97, le misure previdenziali contenute nella Legge n.724/1994 fissavano, ma solo per 1995, l’aliquota di rendimento dei trattamenti al 2% e l’età di riferimento per le pensioni di anzianità a 35 anni di contribuzione, mentre contemplavano, a partire dal 1996, la possibilità di abbassare l’aliquota e scatti ogni 18 mesi per le pensioni di vecchiaia (fissando il “tetto” pensionabile a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne). Inoltre veniva introdotta una penalizzazione del 3% per ogni anno di anticipo rispetto al raggiungimento dell’età pensionabile per i trattamenti di vecchiaia.

La triplice (CGIL, CISL, UIL) insorge, oltre un milione e mezzo di lavoratori scendono in piazza, il Governo Berlusconi stralcia dalla finanziaria le norme previdenziali

1° dicembre 1994 è accordo Governo Berlusconi e Sindacati per il varo di una riforma previdenziale, non più nella logica di sola razionalizzazione della spesa, bensì di reimpostazione del sistema previdenziale, secondo regole innovative che rassicurino i mercati e ristabiliscano il principio di solidarietà tra i lavoratori (abolendo diversità di regole che sono fonte di privilegi) e tra le generazioni.

4 agosto 1995 è il Parlamento vara definitivamente la legge di riforma delle pensioni, nota anche come “Riforma Dini” dal nome dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

 

Riforma DiniCon la predetta riforma del 1995- che ridefinisce il sistema previdenziale allo scopo di garantire la tutela prevista dall’articolo 38 della Costituzione come stabilito al comma 1 dell’articolo1- il legislatore ha affrontato la permanente differenziazione tra entrate contributive e prestazioni previdenziali caratterizzante negativamente il nostro sistema pensionistico, operando due fondamenti scelte :

a) introduzione del metodo contributivo, incentrato sulla capitalizzazione dei contributi versati: il calcolo della pensione, cioè, non è più agganciato direttamente al livello della retribuzione, ma fa riferimento ai contributi annuali. L’accumulo di questi contributi, rivalutati da un interesse che la legge chiama “tasso annuale di capitalizzazione”, dà luogo al “montante contributivo”;

b) abolizione, a regime, delle “pensioni di anzianità”: queste, infatti, potranno essere conseguite solo dai lavoratori con più di 18 anni di anzianità contributiva al 31.12.1995. La legge, infatti, distingue tre fasce di lavoratori:

(a) nuovi iscritti, ai quali si applica integralmente il sistema contributivo;

(b) “vecchi” iscritti con più di 18 anni di anzianità contributiva al 31.12.1995, ai quali si applica integralmente il sistema retributivo;

(c) lavoratori con meno di 18 anni di anzianità contributiva al 31.12.1995, ai quali si applica il sistema misto.

 

Gli interventi sulle pensioni succedutisi negli anni (riforma Prodi del 1997, riforma Maroni del 2003, 2^ riforma Prodi del 2008, manovra economia 2010 e manovra economica 2011; “scalini”, “scaloni”, quote, “finestre mobili”, etc.) sono stati diretti a consolidare il sistema riformato, per contenere il rapporto spesa pensionistica/Pil ed assicurare la sostenibilità finanziaria nel periodo transitorio. Con l’innalzamento graduale dell’età pensionabile attraverso, appunto, il meccanismo di scalini e quote (somma tra età anagrafica e anzianità contributiva), il legislatore ha inteso accelerare l’entrata a regime della riforma del 1995, che prevede, ex comma 19, art.1, della legge, l’eliminazione dall’ordinamento della pensione di anzianità.

 

Nel dettaglio:

“Riforma Prodi” – Nell’ambito di un più ampio disegno di riforma dello stato sociale, il provvedimento collegato alla legge finanziaria 1998 (Legge n.449/1997) interviene sul sistema previdenziale apportando ritocchi e aggiustamenti alla Legge n.335/1995.

In particolare:

a) aumento della contribuzione per gli autonomi, ovvero elevazione delle aliquote contributive per artigiani e commercianti (rispettivamente dal 15% a 15,8% e dal 15,39% al 16,19% con decorrenza 1.1.1998; a decorrere dal 1.1.1999 l’aliquota subirà un aumento annuale di 0,2 punti percentuali fino a raggiungere l’aliquota complessiva del 19%); per i lavoratori autonomi iscritti nella gestione separata dell’Inps e che non risultino iscritti ad altre forme obbligatorie (dal 10% all’11,5% con decorrenza 1.1.1998; a decorrere dal 1.1.2000 il contributo sarà incrementato, ogni due anni, di 0,5 punti percentuali fino a raggiungere l’aliquota del 19%); per i coltivatori diretti , coloni e mezzadri (incremento dello 0,3% con decorrenza 1.1.1998);

b) slittamento delle finestre di uscita;

c) accelerazione della c.d. “fase transitoria” (minimo di contributi + minimo di età per ottenere le pensioni d’anzianità);

d) parità tra dipendenti pubblici e privati (i privati per ottenere la pensione d’anzianità dovranno aver raggiunto 35 anni di contribuzione e 54 anni di età, anziché 53 come previsto dalla riforma Dini);

e) ripristino della disciplina del cumulo pensione-reddito .

 

“Riforma Maroni” – La legge 23 agosto 2004, n.243 apporta ulteriori “ritocchi e aggiustamenti” alla citata Legge n.335/1995, per perseguire l’obiettivo di risparmio dello 0,7% del Pil e garantire, quindi, la sostenibilità finanziaria nel periodo transitorio e per raggiungere due finalità largamente condivise a livello europeo: liberalizzazione dell’età pensionabile, elevandola gradualmente su base volontaria e sviluppo della previdenza complementare.

Si tratta di una legge delega che prevede due fasi di intervento:

– fino al 2008, nulla cambia per quanto riguarda le pensioni. Partono da subito gli incentivi per chi intende restare al lavoro oltre l’età pensionabile ed è prevista una sorta di “patto tra i lavoratori e lo Stato” che garantisca al lavoratore la certificazione della propria posizione assicurativa, al fine di frenare la corsa al pensionamento dettata soltanto da paura e timore di vedersi intaccata la propria pensione.

– nel 2008, scatta il c.d. “scalone” per l’accesso al pensionamento, ovvero 40 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica oppure 35anni di contributi e 60 di età (61 per gli autonomi).

2^ “Riforma Prodi” – Sostanzialmente si è trattato di un intervento “demagogico” più che necessario, poiché la sinistra aveva sempre puntato il dito contro il c.d.”scalone Maroni” e la sua abolizione era un punto del programma elettorale. La legge n.247/2007 dà attuazione all’Accordo su previdenza, lavoro e competitività del 23 luglio 2007, siglato da governo e parti sociali. Punto centrale della Riforma è stato appunto l’abolizione del c.d. “scalone Maroni” (ovvero l’innalzamento dal 1° gennaio2008 a 60 anni, con uno scatto di 3 anni, per l’accesso alla pensione di anzianità, come stabilito dalla Riforma Maroni) e l’introduzione di c.d. “scalini”, ovvero si fissa in 58 anni (59 per i lavoratori autonomi) l’età minima per la pensione di anzianità, con 35 anni di contributi nel 2008, con aumento graduale del requisito anagrafico fino a raggiungere 61 anni (62 per i lavoratori autonomi) dal 1° gennaio 2013. E’ prevista, altresì, l’introduzione di “quote” quale somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva. E così, a decorrere dal mese di luglio 2009, sarà possibile andare in pensione al conseguimento di “quota95” (“quota96” per gli autonomi), con un graduale innalzamento fino a “quota97” (“quota98” per i lavoratori autonomi) a decorrere dall’anno 2013. Il diritto alla pensione si consegue, indipendentemente dall’età, con almeno 40 anni di anzianità contributiva.

Si era stimato che la revisione dello scalone abbia un costo nel decennio 2008-2017 pari a 7,48 miliardi di euro, cui devono aggiungersi 2,52 mld di euro per i lavori usuranti, per un totale di € 10 mld. Peraltro l’intervento si pone in contrasto con gli impegni assunti dall’Italia in sede europea (vertice di Lisbona, anno 2000), ovvero di innalzare l’età media di pensionamento

 

Manovra economica dell’estate 2010 (art.12, comma 12-sexies del DL n.78/2010) – è stato disposto:

  • il progressivo aumento dell’età pensionabile per le donne nel pubblico impiego. Tale intervento può considerarsi un “atto obbligatorio” per dare attuazione alla sentenza della Corte di Giustizia della Comunità europea 13 novembre 2008 nella causa C-46/07, con la quale l’Alta Corte di Lussemburgo aveva individuato nella differenza di età minima (60 per le donne e 65 per gli uomini) di accesso al pensionamento di vecchiaia una violazione dell’articolo 141 del Trattato, facendo scaturire, pertanto, l’obbligo per lo Stato italiano di equiparare, per i pubblici dipendenti iscritti alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria IVS, il requisito anagrafico utile ai fini del conseguimento del trattamento pensionistico di vecchiaia;
  • l’introduzione delle c.d. “finestre mobili”, ovvero slittamento della decorrenza della pensione per uomini e donne che raggiungono i requisiti di età dal2011 inpoi: per i lavoratori dipendenti il trattamento pensionistico decorre trascorsi 12 mesi dalla data di maturazione dei requisiti previsti e per gli autonomi trascorsi 18 mesi. La decorrenza di 12 e 18 mesi, rispettivamente per i dipendenti pubblici e privati e per gli autonomi, si applica anche alla maturazione dei requisiti per le pensioni di anzianità; mentre 18 mesi è l’attesa per la decorrenza del trattamento pensionistico per coloro che conseguono una pensione da totalizzazione

 

Manovra estiva per il 2011 (art.18, comma 1, D.L. n.98/2011) – è stato previsto il progressivo innalzamento a 65 anni del requisito anagrafico per l’accesso al pensionamento di vecchiaia anche per le lavoratrici dipendenti ed autonome del settore privato.

 

Manovra di ferragosto o manovra bis per l’anno 2011 (art.1, commi 20-21, D.L. 138/2011) – è stato previsto:

  • per il settore privato: che per le lavoratrici del settore privato l’innalzamento del requisito anagrafico inizi dal 2014 (anziché dal 2020) con l’entrata a regime il 1° gennaio 2026 (invece che il 1° gennaio 2032);
  • per il settore pubblico: specificatamente il personale del comparto scuola, sono state modificate con decorrenza 1° gennaio 2012 le c.d. finestre dei trattamenti pensionistici (sia di vecchiaia che di anzianità), prevedendo che i trattamenti decorrano dall’inizio dell’anno scolastico e accademico che ricade nell’anno solare successivo a quello in cui si siano maturati i requisiti. Tale intervento scaturisce dalla necessità di armonizzare le regole di decorrenza del pensionamento del settore scuola a quello degli altri settori . Finora, infatti, il settore scuola era sempre stato escluso dai vari interventi di posticipo delle decorrenze pensionistiche, basti ricordare che dalle c.d. finestre mobili di cui all’articolo 12, comma 1, del D.L. 78/2010 (12 mesi di attesa per i lavoratori dipendenti e 18 mesi per gli autonomi) era stato fatto salvo il personale del comparto scuola.

 

“Riforma Monti -Fornero”

 

L’art.24 del decreto legge 6 dicembre 2011, convertito con modificazioni, dalla legge n.214/2011, interviene “pesantemente” sul sistema pensionistico, riformandolo e modificandolo sostanzialmente attraverso:

  • l’introduzione del sistema contributivo per tutti;
  • l’abolizione delle pensioni di anzianità e sostituzione con la. c.d. “pensione anticipata”;
  • soppressione regime decorrenze – c.d. “finestre”;
  • innalzamento dell’età pensionabile;
  • introduzione di disincentivi per chi chiede la pensione prima dei limiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia.

 

Nel dettaglio:

 

Pro-rata A decorrere dal 1^ gennaio 2012, con riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere da tale data, la quota di pensione corrispondente a tali anzianità è calcolata secondo il sistema contributivo.

 

Pensioni di vecchiaia E’ stata accelerata l’equiparazione dell’età pensionabile delle donne con i 65 anni degli uomini e l’innalzamento per tutti a 66. Dal 1˚ gennaio 2012, infatti, l’età sale a 62 anni. Il requisito è fissato a 63 anni e 6 mesi nel2014, a 65 nel 2016 ed a66 a decorrere dal 2018. Per le lavoratrici autonome (commercianti, artigiane e coltivatrici dirette), invece, lo scalone del 2012 è di 3 anni e 6 mesi (l’età sale a da60 a 63 anni e mezzo), per fissarsi a 64 anni e 6 mesi nel2014, a 65 e sei mesi nel 2016 ed attestarsi a 66 anni a decorrere dal 2018. Per gli uomini il limite sale a 66 anni dal 2012 perché già incorpora la finestra.

 

Flessibilità All’innalzamento dell’età viene affiancata anche una certa flessibilità nell’uscita dal lavoro. Dall’età 62 all’età 70 vige il pensionamento flessibile, con applicazione dei relativi coefficienti di trasformazione del capitale accumulato con ilmetodo contributivo (che oggi arriva al massimo a 65 anni) calcolati fino a 70 anni. Per gli uomini (e per le dipendenti pubbliche), la fascia di flessibilità è compresa tra 66 o 66,5 (età minima, oggi prevista per il pensionamento di vecchiaia) e 70 anni.

 

Pensione anticipata e Penalizzazioni A partire dal 2012 per ottenere la pensione prima dell’età della vecchiaia occorrono agli uomini 42 anni ed un mese e alle donne 41 e un mese. Nel 2013 il requisito sale a 42 e 2 mesi, per attestarsi a 42 e 3 mesi a partire dal 2014 (per le donne rispettivamente 41 e 2 mesi, 41 e 3 mesi). In tal caso, però, l’assegno sarà corrisposto con una riduzione, per la quota retributiva (cioè le anzianità contributive maturate ante 1° gennaio 2012) pari al 2% per ogni anno di anticipo.

 

 

Esenzioni Sono fatti salvi dalle nuove disposizioni –e dunque per loro continuano ad applicarsi i requisiti di accesso ed il regime delle decorrenze previsti dalle disposizioni vigenti prima dell’entrata in vigore del decreto-legge- i lavoratori che maturano i “vecchi” requisiti entro il 31 dicembre 2011, ovvero, nel limite di 50mila unità ai lavoratori collocati in mobilità a seguito di accordi sindacali stipulati entro il 31 ottobre 2011.

Salvaguardia Una “salvaguardia” dalla severità delle nuove norme è prevista per:

  1. i lavoratori (uomini e donne) che entro il 31 dicembre 2012 maturano 36 anni di contribuzione e 60 anni di età o 35 di contribuzione e 61 di età potranno andare in pensione al compimento dei 64 anni di età;
  2. le lavoratrici che entro il 31 dicembre 2012 maturano almeno 20 anni e alla medesima data conseguano un’età anagrafica di almeno 60 anni potranno andare in pensione di vecchiaia al compimento dei 64 anni di età.

Mansioni usuranti Vengono attenuati i benefici previdenziali precedentemente previsti in favore dei lavoratori addetti a lavorazioni particolarmente faticose e pesanti (c.d. lavori usuranti) [ai quali la legge n.67/2011 consentiva di maturare il diritto al trattamento pensionistico con un anticipo di 3 anni) prevedendo per costoro che il pensionamento avvenga secondo il sistema delle “quote” (vale a dire che per i lavoratori usuranti non trova applicazione l’abolizione delle finestre).

Totalizzazione E’ stato soppresso il requisito minimo di tre anni di versamenti contributivi per ciascuna gestione ai fini della totalizzazione dei periodi assicurativi maturativi in differenti gestioni.

 

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