ROBERTO SIMONETTI. Signor Presidente, membri del Governo e colleghi, vorrei iniziare con un
discorso più ampio, per arrivare al testo della mozione Vico ed altri n. 1-00007 e, quindi, ad
illustrare la mozione Polledri ed altri n. 1-00021, di cui sono cofirmatario.
Vediamo che la crisi economica attuale, talvolta strutturale per alcuni distretti, è da incastrarsi in
una logica che, ovviamente, non ha solo una rilevanza nazionale, ma soprattutto mondiale, che ha
origini ovviamente non recenti e che è figlia della pessima gestione pubblica degli anni passati, che
individuo dal Dopoguerra agli anni Duemila.
Infatti, la classe politica italiana ha causato un forte debito pubblico per sostenere lo sviluppo del
sud, purtroppo però senza neppure realizzarlo: invece di investire nell’intrapresa, all’epoca fu scelta
la strada dell’assistenzialismo, dei flussi di denaro a pioggia, sostenendo il cosiddetto Stato sociale,
cioè il reddito, il consumo delle famiglie e non l’impresa, l’intrapresa appunto, creando così la
gravissima disoccupazione del Meridione e l’enorme debito pubblico che incide indirettamente sulla
vita di tutti i giorni.
Poi, l’arrivo al galoppo della globalizzazione dei mercati ha sorpreso di fatto con le mani nel sacco
la vecchia classe politica italiana, che è stata incapace di rinnovarsi e di rinnovare in tempo
l’economia in atto.
Poi, la caduta delle dogane e la conseguente globalizzazione dei mercati hanno reso impossibile il
vecchio equilibrio economico che vi era una volta tra nord e sud: se un tempo i soldi che il nord
dava al sud tramite le politiche centralistiche di assistenzialismo tornavano indietro, perché al sud si
comprava quanto veniva prodotto in Padania e al nord, oggi i soldi dell’assistenzialismo finiscono a
Taiwan, a Singapore, in America, in Cina, perché dappertutto, a Torino come a Palermo, si
comprano i beni che costano meno.
Questi due sistemi economici interni, quindi, hanno evidenziato il loro stato di crisi, tra l’altro con
l’entrata della lira nella moneta unica, a causa del sistema di rapporti rigidi tra la lira appunto e le
altre monete europee.
Difatti, attualmente non è più possibile ricorrere alla svalutazione competitiva come una volta,
metodo molto usato negli anni passati per poter rendere competitivo, come dicevo, il sistema
produttivo padano e italiano nel suo insieme, attualmente frenato e ancorato dall’alto costo dello
Stato (aspetto che è oggetto, tra l’altro, del DPEF di quest’anno).
Infatti, alla lotta commerciale si va tenendo conto sia dei costi vivi della produzione, sia dei costi
istituzionali (salari, sistema previdenziale, costo del denaro, via dicendo).
Tutto ciò è facilmente riscontrabile ai giorni nostri: l’esempio tanto più lampante è rappresentato
dalla Cina e dalla concorrenza sleale cinese e asiatica, il cui costo di produzione è mediamente pari
a un terzo di quello italiano e la cui manodopera è pari in media a un decimo (infatti, il costo orario
di un operaio cinese è stimabile intorno a 36 centesimi di dollaro). Attendere rivendicazioni
sindacali in quei territori è praticamente pura follia e utopia.
Di più: oltre ad avere problemi con la Cina, anche l’Europa rende difficile la nostra competitività;
più il mercato mondiale è andato verso una competizione intensa, più l’Europa ha incrementato la
regolamentazione, creando ideologicamente così tanti problemi, artificiali quanto irrazionali.
Si ha quindi, da una parte, una competizione globale del mondo e, dall’altra, una burocrazia totale in
Europa, che vuole utopisticamente creare un mercato perfetto interno, quando il mercato globale è
tutto tranne che perfetto.
Il rilancio economico è stato anche minato dagli effetti dell’apprezzamento dell’euro. Infatti, la
specializzazione produttiva italiana, orientata prevalentemente in settori la cui domanda
internazionale non è stata – e non sarà – tra le più dinamiche, risente maggiormente
dell’apprezzamento dell’euro, causando un ulteriore motivo di debolezza per le nostre esportazioni.
Come uscire, pertanto, da questo tunnel? Almeno due, fra le altre, sono le vie da perseguire: la
qualità della produzione nazionale e la difesa dei confini. Per una produzione di qualità è necessaria
– come dicevo – l’innovazione tecnologica ma, soprattutto, ormai è diventato ineludibile perseguire
le norme di concorrenza leale, sia essa sociale che lavorativa. È indispensabile, quindi, che la
politica renda più equo il mercato ed esporti i diritti del lavoro: anche i costi ambientali e sociali
dell’economia devono venir sopportati da tutti i concorrenti. Perché non parlare allora di quote e di
dazi? Diventa urgente anche parlare di questi provvedimenti: urge una consapevolezza, a livello
europeo, di difesa dei confini.
Dopo una politica di rafforzamento dei brevetti e di repressione della contraffazione, è
indispensabile creare un mercato comune in cui vi siano regole comuni, al fine di tutelare le
economie occidentali dalla totale anarchia di quella orientale. Taluni affermano che la migliore
democrazia sia il libero mercato e che il libero commercio, alla lunga, porterà benefici a tutti. Non
si tratta di politiche proposte dalla Lega Nord, ma dalla sinistra e, soprattutto, dall’ex Presidente
Prodi, quando era Presidente della Commissione europea.
Tuttavia, questa è la teoria; la pratica è che l’Europa è invasa da prodotti cinesi, mentre è pura
illusione che la stessa Cina diventi terra di conquista per il made in Europa o il made in Italy. Si
dice che cento milioni di cinesi ricchi potranno essere i beneficiari delle nostre produzioni. Nella
realtà, al giorno d’oggi, vi è già una grande cifra di giapponesi ricchi, simile a quella ipotizzata, che
però importa da noi solo quattro miliardi di prodotti, pari al nostro commercio con il Portogallo. Gli
asiatici ricchi non fanno pazzie.
Di più: la Cina potrà diventare – come taluni aspirano – terra di conquista per il prodotto italiano tra
quindici o vent’anni. La domanda principale è, però, la seguente: in questa situazione, il nostro
sistema industriale riuscirà a reggere per quel periodo necessario affinché il nostro export possa
aggredire le economie asiatiche?
Non da ultimo, urge un controllo effettuato con strumenti indiretti, quali i controlli alimentari,
sanitari, ambientali e di tutela sociale sui prodotti d’importazione. Un esempio lampante fu quello
dei 91000 giocattoli cinesi pericolosi per l’incolumità e la salute dei bambini ed altri esempi,
purtroppo, si possono rinvenire nella quotidianità.
Le mozioni in oggetto trattano problematiche diverse, collegate fra loro, ma che in alcune parti sono
distinte. Proviamo, quindi, a rintracciare i diversi punti cardine di dialogo e di dibattito. Il primo è
rappresentato dalla contraffazione dei prodotti: vi è l’esigenza di difendere i confini dall’invasione di
prodotti sottocosto, normalmente cinesi, sia da un punto di vista economico che sanitario. Pertanto,
vi è l’esigenza di competere a livello internazionale, in un mercato viziato da una concorrenza
sleale, e di garantire al manifatturiero un futuro, che è minato dalle scelte sbagliate dell’Europa, tese
a privilegiare il commercio e il trade piuttosto che la produzione (questo aspetto è stato rilevato
anche dall’onorevole Vico).
Pertanto, nel cosiddetto pacchetto sicurezza, attualmente allo studio, per quanto riguarda la
contraffazione, abbiamo inserito pene più severe, come l’immediata distruzione della merce. Inoltre,
in questo campo va difeso l’istituto dall’Alto commissario per la lotta alla contraffazione, istituito
dall’allora sottosegretario Cota, ora presidente del gruppo della Lega Nord Padania. La Lega Nord
chiede al Governo che questo argomento venga inserito in una delega specifica al Ministero dello
sviluppo economico, attraverso o un sottosegretariato specifico o una delega ben visibile, perché
l’attività dell’Alto commissario per la lotta alla contraffazione è indispensabile per portare avanti le
citate politiche di controllo della bontà dei prodotti che giungono sui nostri territori. Inoltre, vi è il
sequestro differito e preventivo della guardia di finanza sui prodotti.
Per quanto riguarda la difesa dei confini, occorre ovviamente attuare misure più restrittive presso le
nostre dogane e maggiori controlli doganali presso i porti, per esempio quelli di Trieste e di Napoli.
Praticamente, i nostri porti non devono costituire aree di sbocco dei prodotti asiatici verso l’Europa,
ma devono essere, appunto, aree in cui il prodotto italiano parte per l’esterno, per l’estero e per i
mercati stranieri. Non mi sembra, però, che questa fosse una politica della sinistra. Convengo che,
nel dibattito attuale, ci si è avvicinati alle posizioni secondo cui i porti e i nostri sistemi di ricezione
devono servire ad esportare e non ad importare prodotto, soprattutto contraffatto.
Non intendo fare polemiche ma, se se non sbaglio, mi ricordo un dibattito televisivo – forse da
Vespa, durante il faccia a faccia tra Prodi e Berlusconi, due anni fa – in cui si disse che i porti di
Napoli e di Trieste dovevano essere la porta dell’oriente per l’Europa. Noi la vedevamo esattamente
al contrario: essi dovevano essere la porta dei prodotti italiani verso l’oriente e verso l’esterno,
piuttosto che il contrario.
Per quanto riguarda i dazi e le misure di protezione, come è stato ricordato, l’accordo multifibre è
praticamente scaduto nel 2007, vi sarà la libera circolazione dei prodotti alla fine di quest’anno e,
purtroppo, questi sono i risultati di politiche che riteniamo scellerate, miopi e distruttive
dell’economia reale dell’Europa manifatturiera, a favore dell’Europa che vuole la vittoria del
commercio. A nostro avviso, non si può vivere solo di terziario. Sono la produzione e l’impresa che
generano ricchezza, non il semplice commercio.
La Lega Nord Padania ha sempre posto le quote e i dazi come un freno a difesa delle nostre
imprese, ma è sempre stata derisa e inascoltata. Oggi, però, siamo tutti qua a rivendicare,
comunque, una sorta di risposta positiva in questo senso.
Per quanto riguarda l’esigenza di garantire un futuro manifatturiero, servono leggi precise che
devono imporre che, sul mercato europeo, possano circolare esclusivamente prodotti manifatturieri
che – sebbene provenienti da Paesi dell’Unione europea od extracomunitari – abbiano
obbligatoriamente applicata l’etichetta made in, con l’indicazione, quindi, del Paese di origine e
corredata da una scheda di trasparenza e tracciabilità per le operazioni di lavorazione.
Intendiamo, dunque, anche definire ciò che è made in Italy, nel senso che vediamo l’etichettatura
obbligatoria come una soluzione per offrire al consumatore la possibilità di scegliere, in modo tale
che siano garantite la sicurezza e la qualità del prodotto, attraverso un’etichettatura che renda
trasparente in sé la tracciabilità del prodotto: un’etichetta, quindi, in cui siano descritte tutte le fasi
della filiera di produzione, affinché il consumatore sia libero di decidere. Questi potrà anche
comprare tutti prodotti cinesi, non contraffatti, ma che abbiano quelle caratteristiche di salubrità e di
qualità che altri prodotti italiani, invece, possiedono.
Si tratta, pertanto, di un made in Italy da definire, perché attualmente certe sentenze danno la
possibilità, a chi produce all’estero, di venire in Italia, di avere solo la sede nel nostro Paese e,
talvolta, solo attaccando un bottone, di poter definire made in Italy un capo. Questo non è più
possibile! Bisogna regolamentare in modo specifico cosa si deve intendere per made in Italy, non
tanto il marchio made in Italy (discorso portato avanti dalla proposta di legge della scorsa
legislatura), quanto definire con regole certe che cosa può essere definito made in Italy.
Questo serve per la salvaguardia soprattutto delle nostre maestranze, delle donne e degli uomini
che, con la loro preparazione, hanno fatto diventare grandi i marchi italiani, i grandi marchi
dell’eccellenza artigiana industriale italiana, perché made in Italy – ed è notizia apparsa su La
Stampa di oggi – è sinonimo di qualità e, quindi, di plusvalenza sul prodotto finito.
La Stampa di oggi, a pagina 19, titola «Cina addio, meglio l’Italia»: vi sono, infatti, imprenditori che
capiscono che produrre, senza avere la possibilità di identificare i prodotti come made in Italy,
significa perdere brand sul mercato, perché i cittadini mondiali collegano all’assioma made in Italy
un qualcosa di prestigioso, ben fatto e di alta qualità.
Le politiche economiche di difesa del settore manifatturiero e la disincentivazione della
delocalizzazione, che è un altro brutto fenomeno dell’impresa nazionale, devono pertanto
rappresentare il faro dello Stato verso le imprese.
Nella mozione n. 1-00021 presentata dall’onorevole Polledri, a firma anche del sottoscritto, si
ricorda nella premessa quanto è già stato ricordato anche da altri in merito ai danni e allo stillicidio
di problemi connessi alla regolamentazione mondiale derivante dalla globalizzazione e, soprattutto,
dalla contraffazione. È stato stimato che il giro d’affari legato alla contraffazione si attesta a oltre
100 miliardi di dollari l’anno in tutto il mondo, pari al 5,6 per cento dell’intero commercio mondiale.
Si passa dal 5 per cento dell’industria degli orologi, al 6 dell’industria farmaceutica (un dramma
anche dal punto di vista sanitario), al 10 per cento della profumeria, al 25 per cento dell’audiovideo
e al 35 per cento del software. Oltre il 70 per cento della produzione mondiale della contraffazione
proviene dal sud est-asiatico, con in testa Cina, Corea, Thailandia e Taiwan. Il mancante 30 per
cento circa della produzione mondiale di contraffazione proviene, invece, dal bacino mediterraneo;
purtroppo il nostro Paese è leader anche nel settore dell’autocontraffazione.
L’impegno che chiediamo al Governo attraverso la presente mozione si snoda su più punti. Il primo
è quello volto a mantenere l’etichettatura obbligatoria, tutelando anche i marchi non registrati.
Intervengono qui due fattori: quello dell’etichettatura obbligatoria, nel senso volto a rendere
possibile disporre di un pedigree completo dei prodotti commerciali italiani che circolano
nell’Unione europea, e quello della tutela dei marchi non registrati, oltre a quelli registrati, perché
l’uso fraudolento dei marchi è oramai sport nazionale in alcune zone del mondo, per arricchirsi in
modo parassita dell’esperienza e del know how di altri. Altri punti sono volti ad adottare ogni misura
idonea a proteggere i nostri prodotti nazionali e a implementare il controllo nelle frontiere nazionali
ed europee dell’ingresso di prodotti contraffatti, attivandosi anche presso i competenti organi
europei al fine di garantire l’omogeneità dei controlli; assumere iniziative idonee a fronteggiare la
concorrenza sleale subita dai prodotti italiani da parte dei produttori cinesi e non, anche con
sequestri preventivi; assicurare, come dicevo poc’anzi, che la funzione dell’Alto commissario per la
lotta alla contraffazione, di cui il decreto-legge «taglia enti» prevede la soppressione, siano affidati
al Ministro competente, per essere delegate a un sottosegretario di Stato.